Sul tetto del mondo

Sul tetto del mondo

Katmandu stava alla mia fantasia come  Mompracem  a quella di Emilio Salgari.
Lui scrisse molti romanzi, chiuso in una soffitta della Torino  protoindustriale,  e le Tigri si aggirarono inquiete e minacciose solo nel meraviglioso zoo della sua immaginazione; io invece partii all’inizio dell’Inverno, e a Katmandu ci giunsi, più ossa che carne, con una linea aerea inglese che mi insegnò in poche ore che Rivoluzione Studentesca era un giardino d’infanzia i cui schiamazzi non volavano alti quanto le severe ed annoiate hostess che mi affamarono nei due giorni di volo.
L’aria che all’arrivo la mia faccia incontrò sulle scale dell’aeroporto era inaspettatamente piacevole, quasi tiepida in quell’ora antelucana , e portava un sottilissimo sentore di fieno e di sterco, lo stesso che, dopo quasi trent’anni, ancora mi commuove quando torno qui dalle sempre più rade puntate in Europa.
Quell’aria di montagna onesta, inquisitoria come lo sguardo di un buon selvaggio, mi fece immediatamente desistere dal proposito di adottare una sorta di nome falso, un alias , diciamo, che mi conferisse i titoli fittizi per la mia imminente nuova vita;  avevo pensato di essere da quel giorno un Oliver Settings, fratello virtuale di Olivia Setting, l’unica delle hostess che mi avesse rivolto un sorriso.
Ma no,via, niente pseudonimi. Quella brezza di montagna non ammetteva simili pagliacciate letterarie.

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